Recensioni

Recensione – L’anima urla

L’anima urla
di Katrin Pujia
L’anima urla di dolore e rinascita. L’anima urla, per tutte le volte che è dovuta rimanere in silenzio. La nuova scultura in ceramica e bronzo di Katrin Pujia è la summa artistica del suo attuale percorso artistico. Un movimento circolare per linee e contenuti, che racchiude e conclude uno specifico percorso creativo e cromatico.
In quest’opera tutti gli elementi stilistici e formali che hanno contraddistinto il suo percorso artistico si fondono portando a termine ciò che “Expelliamus” aveva iniziato. Ci troviamo pertanto di fronte ad un percorso di purificazione del corpo che porta ad una rinascita, fisica ed emozionale. L’anima urla è pertanto la rappresentazione universale di quel sentimento condiviso che si chiama dolore.
Il campo di ricerca della “scultrice dell’anima” rimane dunque quell’insieme di ricerca e bisogno, che si esprime attraverso il mezzo scultoreo. I colori caldi e freddi s’imprimono in punti specifici, attraverso la tecnica del saggar firing, come simboli pagani sul corpo e sull’anima.
Un’opera innovativa per tipo di materiali utilizzati e forme che si discosta per sempre dai maestri di riferimento (Arp e Viani) e diventa altro. Un altrove difficile da definire e da descrivere.
Quella che abbiamo di fronte è un’opera curata nel dettaglio che esprime la dualità intrinseca dell’essere. Ricordandoci che i demoni, non vivono sotto al nostro letto, ma urlano, senza sosta, nella nostra mente.
Christian Humouda
Recensione – For the love of God

For the love of God
di
Katrin Pujia
L’opera di ceramica e ferro di Katrin Pujia omaggia il surrealismo delle forme dell’opera Cristo di San Juan de la Cruz di Dalì ma si evolve spazialmente in un altrove fisico ricco di significazioni. Il surrealismo dell’originale diventa per l’artista veneta l’emblema di un brutalismo oggettivo. 
Il presunto figlio di Dio non guarda più il mondo dall’alto, ma si piega sotto il suo stesso peso, diventando esso stesso un pellegrino sofferente. Ciò che osserviamo è la morte di un uomo qualsiasi. Un corpo tra i tanti immolato sulla futuristica e perfettamente disegnata croce del progresso. Katrin Pujia coglie l’essenza del divino creatore contrapponendo una figurazione classica a una visione prettamente pop nella composizione della scena. 
La morte di un uomo, seppur figlio di Dio,  diventa dunque uno spettacolo elaborato e sofferente che omaggia il passato e declina in chiave negativa il presente. Una contrarietà intrinseca nell’impostazione tridimensionale della scena che abbandona l’uomo all’altrove lasciando tutti stupiti.
L’espressione “for the love of God”, è essa stessa carica di quella duplicità insita nell’essenza stessa dell’uomo mentre, la figura umana appena abbozzata è un chiaro rimando alla forma dadaistica dell’oggetto (di uso comune) che può essere riprodotto all’infinito. Quella che ci troviamo di fronte è un’opera matura, sintetica e dotata di una propria luce.
In “for the love of God” cosesistono diverse anime e tecniche che lo rendono un vero e proprio manifesto, futurista nella forma e futuristico nella sostanza. 
Una carezza silenziosa all’arte del passato che si evolve e confonde in una sola frase. “For the love of God. What have you done”. Per l’amor di Dio uomini, che cazzo avete fatto.  
Christian Humouda
Recensione – Amore e Tormento

Amore e Tormento
Di 
Katrin Pujia
Che cos’è l’amore? Questa è la domanda più semplice e complessa da porre a qualcuno. 
L’artista Katrin Pujia lo fa attraverso una duplicità di materiali che si uniscono e distaccano dalla realtà, riproducendo un personalissimo insieme di tormento e sentimento amoroso. 
Il ferro è tagliente, ma racchiude un anima fragile, che coglie le forme arpiane di un cuore smussato. Le linee ondulate del metallo s’inerpicano su un’ascissa storta fino a costruire una gabbia di dolore, da cui traspare però, la purezza di un sentimento sincero. Non esistono elementi banali nella forme tridimensionali del mondo ricreato dall’artista Veneziana. 
Nessun sentimento può essere veramente espresso senza che la sofferenza prodotta dall’attesa venga a fare capolino. Quello che ci troviamo davanti è un’opera tagliente e rozza, definita e complessa, che ricorda l’incompiutezza di un sentimento troppo a lungo inespresso. 
Un respiro di vita che si tramuta ben presto in sospiro e diventa ricordo. 
Perchè non tutti i sogni si possono realizzare e forse, proprio per questo, sono così belli. 

Christian Humouda
Recensione – Luce e ombre

Luci  e Ombre
di 
Katrin Pujia
L’arte è un frutto che cresce nell’uomo, come un frutto su una pianta, o un bambino nel ventre di sua madre 
Jean Arp
Non esiste luce senza ombre, non esiste amore senza odio. 
“Luce e ombre”, nuova opera in ceramica e ferro di Katrin Pujia, si interroga su questa dualità atavica e intrinseca dell’uomo, dandone una forma e un contenuto astratto. 
L’artista Veneta in questa nuova “divina” creazione pare domandarsi: “quanto resta lucente un’anima quando l’ombra delle cattive intenzioni la accerchia e la combatte?”
In risposta a questo quesito nascono le forme arrotondate e armoniche di un albero stilizzato circondato da figure umane che paiono assalirlo. Un susseguirsi di pieni e vuoti che riportano alla memoria le forme naturalistiche della scultura di Arp. Il blocco centrale rappresenta l’anima, candida,  deforme intangibile, che si eleva e sanguina (oro) nella sua stessa genesi e antitesi. Un alfa e omega che si muove su più piani concettuali e stilistici. E’ così che la modernità delle forme incontra le figure umanoidi di Haring private però di quella vitalità quasi infantile che caratterizzava l’artista americano. Le opere proposte dalla scultrice sono pertanto frammenti di vita e di dolore, che si uniscono in quel movimento continuo e indefinito chiamato esere umano. 
Ci troviamo pertanto davanti ad un’opera personalissima e sofferta, che mette di fronte l’impotenza dell’uomo davanti ad un evento che non può essere modificato. Perché sono le decisioni che prendiamo a fare di noi ciò che siamo o per necessità diventiamo. 
Christian Humouda
Recensione – Kalipso

Kalipso
di
Katrin Pujia
Molti autori si sono avvicinati alla figura mitologica di Kalipso. La bellissima dea figlia di Atlantide che salvò Ulisse dai flutti offrendogli riparo e amore per sette anni, prima di essere abbandonata dall’eroe omerico per volere degli stessi dei. 
Un amore tagliente quello dei due personaggi, che si riflette tra i semicerchi spigolosi del ferro e nelle linee ondulate di un mondo che diventa ben preso scrigno. Unico luogo inaccessibile e bellissimo, in cui conservare l’amore di un cuore mortale. Katrin Pujia rivista il mito della Dea ripudiata discostandosi dai classicismi pittorici di Brughel il vecchio e Hitchcock, riportando e traslando il significato del racconto omerico ad una mai banale rappresentazione di un’emozione, che diventa negli occhi di chi guarda: “attimo”. 
Un’opera complessa e stilizzata, in linea con il particolare formalismo estetico di cui l’artista è dotata.
Le forme allungate di una mano racchiudono un cuore di ceramica, fragile, ma allo stesso tempo brillante. Una rappresentazione mai vista di smalti che si fondono l’uno nell’altro dando vita a qualcosa di innovativo e bellissimo. 
Un’opera sfaccettata e limpida, complessa e semplice nella sua sfericità stilistica. Come spesso accade però nelle opere di Katrin Pujia è l’emozione a prendere il sopravvento sulla tecnica e sono le forme a creare significazioni concettuali. Ritorna pertanto ben visibile l’assenza spirituale di Arp che si unisce all’”arte povera” dei materiali utilizzati. Una rivisitazione del mito, che abbraccia l’abbandono e la speranza di immortalità del sentimento amoroso. Un sogno ad occhi aperti il suo, che si dona al mondo, laggiù, dove i sogni sfioriscono in realtà. 
Christian Humouda
Recensione – Il Desiderio è la Fortezza

Il desiderio è la fortezza
di
Katrin Pujia
“Il desiderio è la fortezza dei pensieri mai nati”. 
La nuova scultura in ferro e ceramica di Katrin Pujia si differenzia in modo sostanziale e stilistico dalle sue opere precedenti per forme e contenuti presentati. 
In questo busto che assomiglia per forma ad una vera e propria fortezza, l”artista veneta piega il ferro secondo il suo personalissimo istinto gestuale. Questa volta però non c’è la ricerca astratta di una linea concettuale ma la sovrapposizione sucessiva di strisce che formano e concretizzano le forme ferrose e stilizzate di un viso. 
Il mezzobusto rappresentato diventa pertanto quell’essenza sconosciuta dell’essere umano che i teologi chiamano anima. Un termine questo che comprende gli umanissimi dubbi e dolori che l’uomo porta con sé dall’alba della creazione. 
Le grate all’altezza del cuore e del cranio diventano pertanto le prigioni invisibili che separano l’istinto dall’intelletto, la ragione dalla decisione. Un abbraccio invisibile che unisce tangibilmente il desiderio a quella condanna del vivere, perlopiù, inutilmente. 
Sono infatti i sogni a pretendere e agognare una libertà effimera, che si scontra ben presto contro la gabbia del senso di colpa. 
Gli inserti in ceramica bronzata presenti nella parte superiore della scultura risultano volutamente morbidi. Una contrapposizione intrinseca tra la durezza del ferro e la morbidezza della ceramica. Un passaggio questo che avviene attraverso la stilizzazione delle forme e dei contenuti in una sintesi perfetta  che lega la nuova scultura a tutti i suoi precedenti lavori. 
Perché è il desiderio, l’unico aguzzino di quella parte di anima, che il corpo vorrebbe donare al mondo.
Christian Humouda
Recensione – Due Anime

Due anime
di
Katrin Pujia
“Dove può l’uomo nel mondo intero trovare nobiltà senza orgoglio, amicizia senza invidia, bellezza senza vanità? Egli serve senza servilismo, combatte senza inimicizie. Non c’è niente al mondo di più potente, niente di meno violento, niente di più veloce, niente di più paziente”.
Ronald Duncan.
C’è un legame atavico che unisce l’uomo al cavallo. Un reciproco rapporto di mutuo soccorso che eleva entrambi ad una nuova dimensione spazio temporale. E’ dai tempi Arione e Demetra che la figura del cavallo fa capolino nei testi e nel mondo civilizzato del nostro tempo. L’opera di Katrin Pujia è la sintesi mitologica di questa unione, che rende attraverso un mezzo povero quanto ricercato la fusione intima di due entità che si sfiorano, senza mai arrivare a toccarsi. Due anime è l’essenza estetica e stilistica della figura mitologica del centauro. La rappresentazione furiosa del vento che raccoglie le ali perse di Icaro e si trasforma in manifestazione assoluta di potenza e fierezza. 
La scultura però, può essere pertanto letta sotto più chiavi di lettura, che si spostano dalle riproduzioni seicentesche delle battaglie medievali al lento cammino dell’essere umano verso la civilizzazione. Il cavallo diventa pertanto non solo animale da soma, ma anche compagno silenzioso della crescita evolutiva del mondo stesso. 
Un’unione di pelo e pelle, sudore e fatica quello che accomuna le due anime della scultura che come un sogno troppo a lungo desiderato si sgretola nelle estremità delle forme. E’ infatti nella ricerca antitetica delle essenze e dei muscoli che le idee prendono forma. Laggiù, in quello spazio immaginato in cui Arione sbuffa e sorride. 
Christian Humouda
Recensione – L’essenza dell’amore

L’essenza dell’amore
di 
Katrin Pujia
Qual’è l’essenza dell’amore? Difficile dare una risposta univoca a una domanda così complessa e spesso personale. Ma, come per tutte le cose sconosciute, a quello a cui non si può rispondere si può dare una forma. 
Katrin Pujia cerca di dare sostanza e spazio a una geometria storta di emozioni contrastanti, mostrando ciò che vive nella zona d’ombra di un’emozione. E’ impossibile per chiunque decantare quel gioco di specchi, quasi mai immacolati, che rappresentano l’essenza di un sentimento.
L’artista veneta pertanto s’interroga sul significato della mancanza, scavando per strati successivi un blocco di polistirolo. Un materiale comune come le parole che spesso si usano nel corteggiamento e si dimenticano nella quotidianità dell’esistere.
L’assenza pertanto diventa l’insieme di ciò che resta dei sogni. Di quella parte più intima che solo i poeti e gli artisti sanno decantare.
Nell’opera proposta ritornano prepotenti le influenze astratte di Arp, in quell’estremizzazzione delle linee che diventano sintesi ed estetica di un concetto universale. Un blocco informe di corpi maschili e femminili che si uniscono in una pangea di eros e thanatos. Un “Death Self” volendo citare una famosa performance di Marina e Ulay, uno scambio di fisicità e sentimento che si trasla in un emozione conosciuta ma sempre nuova. 

Christian Humouda
Recensione – Geometrie e sintesi

Geometrie e sintesi
di
Katrin Pujia
La nuova scultura di Katrin Pujia giovane e talentuosa artista veneta pone le basi per quella che, a oggi, è da considerarsi la sua più perfetta sintesi di sottrazione fisica e sviluppo concettuale della figura.
In “geometrie e sintesi” non c’è un vero e proprio rifiuto formale della figurazione, ma al contrario una ricerca sottrattiva di cromatismi e forme. Un’osservazione intrinseca che lascia al ferro la sagomatura di un cavallo che si gratta il muso. Una riappropriazione fisica dello spazio che si stempera nell’essenzialismo ricercato e semplice del gesto. 
L’artista veneta pone in essere un’opera che si discosta profondamente dal busto classicista di “Ares. Il figlio del fuoco e della terra” ricreando una contrapposizione, distante per forma ma vicina per significato, che abbraccia il suo lavoro precedente e lo sublima in una sintesi estetica e concettuale.
Un abbandono momentaneo dell’astrattismo tipico delle sue opere precedenti, che lascia al fruitore finale una commistione ben dosata di futurismo e robotica. 
Un’opera al limite del dadaismo che si differenzia però nell’abbandono della fissità fisica dell’ogetto di uso comunee ricreando un movimento armonico e gestuale. 
Le geometrie matematiche lasciano pertanto spazio alla forma e coniugano il design alla fissazione fotografica dell’attimo. Perché, mai come in quest’epoca, i concetti hanno bisogno di un controllo specifico, che aiuti ad abbracciare ed estendere il significato della forma. 
Recensione – Ares
                                                                       Ares
il figlio del fuoco e della terra
di
Katrin Pujia
C’è un timore atavico nel cuore degli uomini che abbraccia amore e furia, fierezza e tormento.  Ares, la nuova scultura di Katrin Pujia, accompagna e trascende il tempo e lo spazio, donando al mondo quel fiero senso di determinatezza che solo il cavallo è capace di esprimere. 
Nell’opera qui rappresentata è ben visibile una forte componente classicista, che si modernizza nella criniera dorata e ferrosa dell’animale. Un contrasto necessario per provocare nella vista quella contrapposizione distopica tra estetica e bellezza.
L’artista veneta abbandona l’astrattismo e la sintesi delle sue opere precedenti per donarci un mezzobusto romanico. Un volto ben definito che può essere accostato a quello degli imperatori romani. 
Ares, il mitologico figlio della terra e del fuoco, rivive oggi dentro a uno spazio delimitato, perdendo le sue sacre, quanto ingiuste, sembianze umane. L’imeneo Dio della furia e del sangue prende invece forma nel quadrupede che più di ogni altro è stato il compagno fedele dell’uomo nel suo percorso di evoluzione e crescita. Un rosso acceso che colpisce gli occhi e scorre, tramutandosi in muscoli e carne, velocità e obbedienza. 
Mai come in questo caso la forza della figurazione diventa l’emblema intrinseco del progresso violento del mondo occidentale.
“Marte” nasce dal fuoco e dalla terra, dal refrattario e dallo smalto, diventando, per colpa o per destino, emblema di quella guerra interiore che ogni uomo combatte. Un figlio unico senza padroni e sentimenti che cavalca nei campi elisi della fantasia. Il Dio perduto che si muove come un semplice corpo fra migliaia di altri e si sublima nell’essenza tipica dell’arte genitrice. Perché non può esserci perdono per coloro che hanno abbandonato il saluto al sole e all’unico vero Dio, la natura. Perchè un fiore rinascerà sempre e con esso, tutti quegli istinti atavici, che rendono l’uomo solo. 
Dott. Christian Humouda
Recensione – Le linee del vento
Le linee del vento

di
Katrin Pujia
“Con coda ondeggiante e criniera al vento, 
le froge selvagge mai contratte dal dolore 
e bocche non insanguinate da morso o redine, 
e piedi che il ferro mai calzò, 
e i fianchi intatti da sprone o frusta, 
un migliaio di cavalli, selvaggi, liberi, 
come onde che si inseguono nel mare, 
giunsero fitti tuonando.”
Lord Byron
C’è una linea sottile che separa la bellezza dalla libertà, l’esistenza dal mito. 
Katrin Pujia abbandona il connubio perfetto di ceramica e ferro delle sue sculture precedenti, per tornare a una sintesi concettuale che prende forma, nelle linee stilizzate di un cavallo. Un insieme di armonia e leggerezza che coglie tutte le caratteristiche del quadrupede più conosciuto della terra. Quelle che osserviamo sono linee sintetiche e curve che abbracciano un movimento intrinseco e costante e occupano uno spazio fisico nel mondo circostante. 
Un evoluzione empirica che ripropone il gioco dei vuoti e dei pieni tipico dell’astrattismo delle sculture precedenti e si avvicina, con una figurazione più dettagliata, alla stessa concettualità stilistica del “bacio”. Altra opera interamente sagomata in ferro, secondo forme astratte e linee innovative. 
In quest’ultimo lavoro le labbra lasciano spazio ad una criniera selvaggia e a una testa triangolare che si protende verso il futuro, con fierezza e forza. Un’opera libera e libertaria che abbraccia la forza della sintesi e la passione dell’uomo verso il confine inesplorato della bellezza. 
Un animale fiero e indomito quello rappresentato mette nuovamente a nudo l’evoluzione stilistica dell’artsita veneta. Mostrando al mondo la molteplicità di elementi che caratterizzano la sua scultura  e il suo modo di creare. Una tecnica quella utilizzata che asseconda linee mutuate dalla natura e dai dipinti classici in un connubio tridimensionale quanto originale.
Ciò che ci troviamo a osservare è pertanto una rappresentazione estatica di un’essenza fisica, che abbraccia solo parzialmente la figurazione, lasciando alla memoria il ricordo del mito. 
Christian Hunouda

Recensione La Pietà

L’ottavo dolore – La Pietà

di Katrin Pujia

Per rivisitare in modo originale, e non banale, un capolavoro dell’epoca rinascimentale serve la lucida follia di un visionario e la qualità tecnica ed espressiva di un’artista.
La Pietà di Michelangelo è diventata, nel tempo, un capostipite della perfetta rappresentazione della sacralità del dolore, ma anche inno alla vita intesa come vittoria perpetua sulla morte.

Katrin Pujia si avvicina al capolavoro del rinascimento italiano con una serie d’idee innovative e rivoluzionarie, che abbracciano il passato ma lo rileggono in una chiave postmoderna. Perché, la pietà “Pujiana” è un insieme ben distinto di simbolismi e materiali, una ricerca interiore ed esteriore delle origni dell’uomo stesso. L’ottavo dolore diventa dunque un concetto hegeliano di tempo inteso come logorio, che invecchia e genera l’oblio. E’ proprio in questo concetto d’intervallo, inteso come scansione della continuità di stati, in cui s’identificano le vicende umane e naturali in cui si muove la nuova pietà.

La scultura presentata possiede un nuovo senso di movimento che rompe con la fissità dell’originale. Una non accettazione umanissima e storta di un sentimento doloroso che intreccia il dolore di una madre al proprio figlio ormai privo di vita.
Un corpo quello del cristo che diviene simbolo delle nostre origini e delle nostre passioni più primitive e porta nel corpo le ferite della croce. La madre dal suo canto si muove in uno spazio di rinascita. E’ proprio in questa non accettazione della fine carnale del Cristo in cui si pongono le principali differenze con l’originale. La Maria di Michelangelo accetta in silenzio, quasi con consapevolezza la morte del suo primogenito, nella Pietà di Pujia invece, la donna diventa protagonista attiva e vitale di quel sentimento umano che incarna la forza materna. Una maternità Carnale che omaggia, nella presa della mater sul filio, l’opera il ratto di Proserpina del Bernini e si perde nel colore dorato dell’agnello biblico perfettamente rappresentato dallo scheletro del Cristo. Un corpo consumato dalla voracità inumana degli uomini. Un organismo scheletrico che si rigenera

come il Fegato di Prometeo e diviene nuovo simbolo di rinascita dalle ceneri.
L’opera di katrin Pujia pertanto si apre e si chiude nell’anima vagula di Adriano. In quell’addio alla vita di un’anima piccola, che si accinge a scendere in luoghi ardui e spogli, ove non avrà più gli svaghi consueti.

Critico d’arte e giornalista Christian Humouda

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